Almansor è l’opera in cui Heine scrive il celeberrimo verso sul bruciar libri ripreso da Primo Levi in “Al visitatore”, testo scritto per l’occasione dell’inaugurazione del Memoriale degli italiani a Auschwitz:
“È vecchia sapienza –scrive Levi- e già così aveva ammonito Enrico Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri finisce col bruciare uomini, la violenza è un seme che non si estingue”. Non è detto che tutti sappiano che i libri di cui parla Heine erano mussulmani: bruciava il Corano e gli incendiari erano uomini dell’inquisizione. Tre monoteismi nati nel segno del padre Abramo, sulle rive del Mediterraneo. Tra le cose che suggerisce la riflessione sulla Shoah c’è la centralità di questo nostro mare – oggi più che mai cimitero liquido e in quanto tale connesso al rischio di oblio di tutto, Shoah inclusa. Una storia con la quale non si è affatto finito di fare i conti.
Difficile dirlo con le parole, ma se fossi capace, dovrei farlo con quelle che occorrerebbe trovare per riuscire descrivere l’espressione del viso di Clelia, una amica di religione ebraica – per me una mistica- quando mi disse –nel volto indomita e tragica come assommando Ecuba e Giobbe insieme, dolorosa eppure serena- che alla fine il nodo da sciogliere, il nodo cui tutti ritornano è Auschwitz. Ineludibile.
Paradossalmente – dico io- anche da chi lo nega: se fosse falso perché tanto impegno a smontare i numeri, se non per l’orrore che suscita la vicenda. Personalmente con i negazionisti credo sia inutile parlare – né con loro né con i complottisti. Tutti citano Baumann e la sua idea di modernità liquida. A me di Baumann piacciono altri libri – ad esempio quello su Modernità e Olocausto.
Dice Baumann che l’Olocausto non è (solo) l’esito di un antisemitismo secolare ma è molto di più: è il prodotto della modernità. La società moderna con la sua organizzazione razionale (fabbrica, burocrazia, scomposizione dei processi in fasi e gerarchie specifiche modellate su di esse) con la tendenza al pensiero unico, zittisce il senso di responsabilità dei singoli consentendo loro di dire “ho eseguito degli ordini”.
Eccola la banalità del male – e con essa la necessità di comprendere e di ricordare. Ma ecco anche perché adoro e m’incanta la bellezza tragica di quel sorriso di Clelia (e di Ecuba e Giobbe) – un sorriso che mi porto dentro come memoria delle memorie, e che ritrovo spesso… ad esempio quando penso al vecchio Sion e al dono che mi ha fatto raccontandosi, o quando m’incontro con le sua figlie Jennifer, Edith e Belinda e il loro fratello Albert e con altri amici ancora.