Con questo articolo che ha il valore di un prologo, mi propongo di redigere una sequenza seriale di articoli che focalizzano l’attenzione su alcuni caratteri sorprendenti di architetture contemporanee la cui forma presenta una figura che diverge da quella della tradizionale scatola edilizia o che ha una connotazione tecnologica che ne propone una versione fortemente divergente da quella trasmessaci dalla storia.
Quelle che presenterò e commenterò sono architetture realizzate in Italia e fuori, tutte aventi una forma insolita, particolare, sicuramente originale per qualche aspetto, dovuta alla avvenuta introduzione da parte degli architetti che l’hanno ideate di varianti linguistiche e formali che suonano fortemente innovative.
Si tratta di neologismi formali derivati da forme d’arte o oggetti d’uso o da altri e distanti universi immaginari, i quali mostrano la grande contaminazione in atto tra i generi artistici, i saperi, le sub–culture di massa, l’universo della comunicazione visiva ed i caratteri stilistici dell’architettura contemporanea.
Un rimescolamento di linguaggi e di forme che, nella classificazione delle arti, hanno mandato definitivamente in soffitta la partizione canonica classica di derivazione accademica che suddivideva appunto le arti nella triade della pittura, scultura ed architettura, differenziando e separando l’architettura dalle altre due in quanto le architetture sono anche edifici contenitori di funzioni. A riprova vi proporrò una piccola campionatura di sculture abitabili o attraversabili, un’architettura che sembra un quadro astratto-geometrico, grattacieli aventi la forma di una nota bottiglia di profumo, edifici con grandi superfici pensate come giganteschi display digitali, pareti trattate come composizioni polimateriche a scala urbana, architetture reali che hanno un grado di astrazione paragonabile ad una rappresentazione di una architettura attraverso un programma digitale 3D iperrealista ( gli ormai noti rendering ) etc…
Proverò a individuare al tempo stesso gli archetipi formali di questo processo di assimilazione/contaminazione che ha generato le architetture sorprendenti che vi mostrerò, rese possibili da un sostanziale dissolvimento del codice linguistico architettonico, dalla sostanziale negazione della scatola edilizia e dalla assimilazione da parte degli architetti delle procedure utilizzate dagli artisti visuali nella esplorazione che essi conducono nei territori di confine dell’arte visuale contemporanea.
Le architetture contemporanee di cui parlerò negli articoli che seguiranno, come già chiarito, non hanno più la forma e la figura dell’edifico tradizionale, che è sostanzialmente assimilabile ad un parallelepipedo o ad un insieme di parallelepipedi disposti in orizzontale o verticale con una copertura o inclinata o piana le cui facciate sono più o meno plasticamente ornate.
Già dal primo anno del corso di laurea in Architettura gli studenti apprendono che il linguaggio tradizionale incentrato sulla scatola edilizia aveva una forte valenza metalinguistica, cioè che l’architettura attraverso la sua forma, raccontava se stessa e le sue peculiarità costruttive e che il linguaggio dell’architettura contemporanea è il risultato di una liberazione dai vincoli imposti dalla tecnologia costruttiva basata sull’impiego della pietra e del legno.
E’ ormai risaputo dai più che l’introduzione delle nuove tecnologie del ferro, del calcestruzzo e dell’acciaio, mutuate dalla rivoluzione industriale, hanno permesso di ampliare enormemente la creatività dell’architetto nel generare gli spazi e le forme architettoniche. La rivoluzione indotta dall’impiego delle nuove tecnologie e dai nuovi materiali industriali ha fatto sì che nella distribuzione degli ambienti l’architetto non fosse più vincolato alla rigida maglia ortogonale rappresentata dalla trama dei muri portanti e che le aperture (porte e finestre) potessero raggiungere dimensioni tali da comportare, addirittura, la totale abolizione dei muri perimetrali.
Per capire cosa sto affermando basta mettere a confronto la Glass House nel bosco realizzata nel 1949 a New Canaan a 40 Km da New York dell’architetto americano modernista Philip Johnson, le cui pareti completamente di vetro fanno fluire la natura al suo interno negando di fatto la separazione tra spazio interno e spazio esterno e generando una architettura diafana, con il quattrocentesco Palazzo Pitti – uno dei più importanti Palazzi fiorentini attribuito all’architetto Luca Fancelli, allievo del grande Filippo Brunelleschi – che presenta nella facciata principale un pesante paramento murario in pietra, reso ancora più massiccio e impenetrabile dalla sagomatura delle pietre a bugna. Il Palazzo, nonostante le finestre che interrompono la continuità muraria, ha l’aspetto di una fortezza inaccessibile. Completamente chiuso verso l’esterno è l’antitesi della Glass House newyorkese.
Naturalmente il confronto è relativo solo alle valenza spaziali e figurative della componente “Parete perimetrale esterna”.
La foto della Glass House è stata tratta da qui.