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IPERCONNESSI O COMPLETAMENTE SCONNESSI?

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Il web proprio in questi giorni compie 30 anni. È uno strumento importantissimo che ha cambiato il mondo. Uno strumento potente che ha contribuito al progresso ma di cui non dobbiamo sottovalutare i risvolti, non tutti positivi. Come tutti gli strumenti, anche internet, dipende dall’uso che se ne fa. Non va demonizzato ma usato bene e richiede, ora che possiamo analizzarlo, una consapevolezza dei rischi che comporta, per arginarli ed affrontarli.
Se ne è parlato ieri al convegno “Cervello e Mindfulness: quale salute per cervelli troppo connessi?” nell’ambito della Brain awareness week 2019, cioè la settimana mondiale del cervello che si svolge anche in Umbria.

Prima di tutto alcuni pochissimi dati. Ci sono 4,6 miliardi di smartphone nel mondo, 2,2 miliardi di persone sono connesse a Facebook e ci sono un miliardo di account attivi su Instagram, solo per parlare dei social più diffusi. Sono in molti a pensare che queste piattaforme sono da mettere in relazione con alcune delle cause che hanno generato una diminuzione della capacità di attenzione. Lo sanno molto bene gli insegnanti che riescono ad ottenere la concentrazione adeguata dei loro studenti per non più di pochi minuti. E lo sanno bene anche i creativi pubblicitari costretti a catturare l’attenzione dei potenziali clienti in pochi secondi. Prima le pubblicità duravano un paio di minuti, ora parliamo di secondi. Questo comporta una generalizzata minore capacità di affrontare qualunque argomento, perché il pensiero richiede uno spazio e un tempo che non sono comprimibili, nelle questioni complesse. Spazio e tempo che un numero sempre maggiore di persone non è disposto a concedere.

L’immagine sta diventando preponderante rispetto alle parole. E questo addirittura sta cambiando anche l’uso dei nostri sensi, alcuni sono potenziati (ad esempio quello della vista) e altri vengono inibiti (gusto).

Attraverso i social si costruisce una immagine di sé, diversa da quella reale. Una narrazione sempre positiva in cui tutti siamo belli, felici e vincenti. Non sempre però l’immagine on line coincide con l’immagine off line. I selfie costruiscono una narrazione “altra”, sempre positiva.
Cambiano anche i modi di vivere il presente e di costruire e custodire i ricordi. Ogni esperienza viene narrata nell’immediato attraverso le foto che postiamo, perdendo in parte molte sfumature del vissuto reale. Si sovrappone la realtà con la costruzione e la narrazione dei ricordi, che vengono immagazzinati immediatamente sui social dove i nostri amici possono esserne informati in tempo reale. La nostra vita è tutta lì dentro. Non c’è più il momento del vissuto e poi del ricordo e del racconto del ricordo, di un viaggio, di una cena, di un incontro, di un evento. Questo comporta una perdita di profondità esperienziale. E sembrerebbe anche una minore capacità di memoria.

Nel web trovano un posto importante le app.
I nativi digitali vengono definiti I-geretation, dove “I” sta per IPhone, ma potremmo anche definirli “Generazione app“, cioè la generazione che pensa che ogni cosa possa essere risolta con una app, uno strumento preconfezionato, che semplifica la vita, è vero, ma che inibisce la capacità di ognuno di noi di trovare soluzioni senza di esso, cioè partendo unicamente dalle nostre risorse interne, sociali e ambientali. Se perdiamo il navigatore non sappiamo più come arrivare in un luogo distante, tanto per fare un esempio.

Sono in crescita gli Hikikomori, cioè i ragazzi che non vanno a scuola, non studiano e non lavorano. In genere dormono di giorno e sono connessi di notte, perennemente chiusi nella loro stanza. Casi isolati? Oggi solo in Italia se ne contano circa 100 mila, non pochi.

È sempre più frequente trovare coppie di persone al ristorante che sedute allo stesso tavolo, magari con al centro un romantico mazzo di fiori, non si guardano e non si parlano, ma sono concentrate sul loro cellulare. O persone che pur stando in gruppo non hanno occhi che per il loro telefonino. Fenomeno talmente diffuso da guadagnarsi persino un nome: fabbing, che comprende quelle persone che distolgono l’attenzione nel corso di relazioni reali per connettersi col mondo virtuale. Un mondo dove c’è sempre qualcuno, dove succede sempre qualcosa. E così abbiamo disimparato a stare soli con noi stessi nel mondo reale, sempre immersi in un sovrappopolato mondo virtuale. E non siamo più capaci di annoiarci, cioè di vivere quel momento e quel luogo ideale in cui guardare dentro di noi, in connessione con i nostri pensieri, che sono solo nostri.

La sfera che riguarda i bambini costituisce l’aspetto più inquietante. Anche al di sotto di un anno sono tenuti buoni con il tablet o con il cellulare. In pizzeria, in attesa dal medico, o mentre viaggiano sul passeggino o in auto. I pediatri hanno lanciato da tempo l’allarme dei rischi connessi.
Impressionante il racconto della psicoterapeuta Tangolo in cui una giovane madre, costretta ad allontanarsi dalla figlia di 8 mesi per lavoro, ha mantenuto il contatto con lei attraverso il tablet via Skype. Al ricongiungimento famigliare avvenuto dopo alcuni mesi, la figlia per addormentarsi rifiutava la madre in carne e ossa e continuava a cercare il collegamento Skype. La donna era costretta ad andare in un’altra stanza e collegarsi sul tablet per tranquillizzare la bambina, che si addormentava stringendo la tavoletta elettronica dove trovava la voce e l’immagine virtuale della madre. Per superare la difficile situazione ci sono voluti mesi e mesi di terapia con medici professionisti. Sembra una enormità, un racconto di fantascienza, una estremizzazione. Eppure succede. Eppure è successo. È realtà.

Insomma nell’era di internet cambia l’amore, l’educazione, la malattia mentale e la cura.

Siamo sempre più connessi col mondo virtuale e sempre più sconnessi da noi stessi.
Gli studi, racconta il dottor Barelli, evidenziano come i grafici di malattie come depressione o semplicemente sentimenti di ansia, solitudine, infelicità siano perfettamente sovrapponibili a quelli di consumo di smartphone. Non con la crisi, non la disoccupazione o con la recessione, ma con l’uso (o forse meglio dire abuso) di device, come smartphone, tablet, pc, quindi di app.
Ci spiegano gli esperti che, nei social come Facebook, Twiter o Instagram, i like e i cuoricini generano endorfine come per chi assume droga, inducendo una vera e propria dipendenza neuro-ormonale.

Insomma i social media stanno riprogrammando il cervello umano e sarebbero anche in grado di dar vita a nuove malattie mentali.
I più importanti CEO mondiali hanno vietato l’uso di smartphone o dispostivi capaci di connessione ai propri figli minorenni. Un messaggio che arriva chiaro e forte.
Chamath Palihapitiya, early senior executive di Facebook, si è licenziato dall’azienda, ha venduto tutte le sue azioni e ha avviato una vasta campagna di sensibilizzazione contro l’uso improprio dei social network.
Justin Rosenstein, inventore nel 2007 del tasto Like 👍, ha lasciato Facebook e ha denunciato una distopia legata ai social.
Voleva semplicemente indurre ottimismo, racconta in alcune interviste, ma si è accorto che la situazione gli è completamente sfuggita di mano.
“Credo che per noi sia particolarmente importante parlare di questi argomenti oggi – ha dichiarato Rosenstein – perché potremmo essere l’ultima generazione che ha qualche ricordo della vita prima”. Prima degli smartphone, cioè.

Fondamentale diventa mettere dei paletti. Fissare delle regole.
La connessione è una grande conquista ma dobbiamo evitare di perdere la connessione con noi stessi.
Il convegno, aperto dal saluto del sindaco De Augustinis, è stato organizzato a Spoleto dalla dottoressa Manuela Germani.

Foto prese da

https://www.amando.it/salute/benessere/iperconnessi-a-tavola.html

https://www.illibraio.it/metti-via-quel-cellulare-cazzullo-583048/

http://blog.euroma2.it/motorola-il-test-della-smartphone-dipendenza/