In un villaggio rurale dell’Inghilterra preindustriale si consuma il dramma di “donna”.
Una giovane pressoché analfabeta assoggettata al marito, rozzo contadino dedito solo alla passione per i cavalli e alle scappatelle.
La giovane è caricata del lavoro domestico e di quello dei campi e sottomessa all’uomo, che l’ha scelta in giovanissima età come moglie ideale proprio per soddisfare i suoi bisogni corporali e accudire alla casa e ai lavori nella fattoria.
Inizialmente “donna”, agli occhi dello spettatore, sembra quasi avere un ritardo mentale, in realtà si rivelerà una mente acuta e sensibile, costretta fin dalla nascita a un ruolo sociale e culturale subalterno da un’intera comunità maschilista, zotica e ignorante.
Solo un uomo, il “mugnaio”, isolato dal villaggio perché creduto un criminale, sarà in grado di farla accorgere delle scappatelle del marito, di renderla consapevole della sottomissione culturale a cui è soggetta e di farle intravedere la possibilità di una consapevolezza diversa.
Tacciato come un mostro dal villaggio, il “mugnaio”, vittima anche lui di una società ignorante e retrograda, libererà “donna” dalla sua condizione di schiava inconsapevole.
E libererà finalmente anche se stesso dai legami dolorosi con una casa in cui aveva ed era stato amato, da un passato drammatico e dalla oppressione di una comunità che lo ha relegato ai margini colpevolizzandolo di efferati crimini mai commessi.
“Donna” e “mugnaio” sono entrambi vittime di una società crudele e ignorante.
Ma Coltelli nelle galline, oltre ad essere un testo sulla subalternità culturale e di genere, è principalmente un manifesto sull’uso della parola e sul linguaggio, sulla necessità di conoscere le parole e di dare un nome alle cose, per appropriarsene. Carta e penna, visti all’inizio come strumenti magici e malefici, saranno artefici di una potente fascinazione mentale che unirà “donna” e “mugnaio” in una passione travolgente. L’uno insegnando, l’altra imparando, nuove parole.
“Donna” inizierà ad essere libera e consapevole solo quando comincerà a scrivere.
“L’uomo può controllare solo quello che comprende e comprende solo quello che è in grado di esprimere a parole”, dice Stanislaw Lem. Ecco il tema principale di “Coltelli nelle galline”.
Per questo “donna” non viene mai chiamata col suo nome (che è dolcissimo, afferma “mugnaio”), perché senza nome “donna” semplicemente non è.
Testo davvero interessante.
Buona la regia, anche se in alcuni momenti ridondante nella messa in scena quando per indicare i diversi luoghi di ambientazione si ricorre alla gigantografia (con scritta) proiettata alle spalle degli attori e contemporaneamente alla statuina rappresentante “donna” che viene posizionata in piccoli plastici riproducenti gli ambienti dello svolgimento della scena.
Stona e disturba, purtroppo, il forte accento milanese di Willy, marito di “donna”. Ma ottima la recitazione di tutti gli attori. Bella e coinvolgente la scenografia che sborda e interagisce col pubblico.
Nella foto Eva Riccobono insignita del Premio La Repubblica Giovane Talento